Il tempo ritrovato
Una delle più grandi libertà che ci ha dato l’arte contemporanea è stata quella di ribaltare lo spazio e di riappropriarci del tempo. Pensiamo all’operazione di Lucio Fontana e a quel suo sfondare la tela per consegnarci la sua terza dimensione, facendo saltare così qualsiasi possibile divisione tra pittura e arte plastica. O pensiamo alle intuizioni fulminanti di Umberto Boccioni o di Giacomo Balla, quando decidono di congelare il movimento e in questo modo, paradossalmente, lo spalancano e lo rendono eterno.
Proprio da qui parte la ricerca di Liliana Cecchin, artista curiosa e sperimentatrice inarrestabile che ha fatto dei gruppi di persone sconosciute il suo soggetto d’elezione. Quando ha cominciato a dipingere si era nel pieno della Nuova Figurazione, la fonte d’ispirazione privilegiata era la metropoli e si assisteva a una sorta di “nuova Montmartre”, con gli artisti che si innamoravano dei ragazzi con i bicchieri fuori dai locali della movida e delle strade ingolfate di auto all’ora di punta. Gli artisti reporter tornavano a saccheggiare la quotidianità con la rapacità con cui l’avevano fatto Manet e Renoir, avidi di scarpe che si specchiavano nelle pozzanghere e di giochi di sguardi.
A Liliana Cecchin allora gli sguardi, in realtà, interessavano relativamente: aveva già individuato il suo soggetto in quel contatto forzato e inevitabile che la metropoli ci impone e che proprio agli sguardi e al contatto ci rende impermeabili. Il suo obiettivo era fin dall’inizio – com’è del resto ora – la folla. Le piaceva vagare sotto i portici di Torino o di Bologna, appostarsi nelle fermate della metropolitana milanese o parigina, oppure lasciarsi incantare dal marmo e dalle luci al neon degli aeroporti e cogliere, in quei luoghi anonimi e identici a se stessi in ogni angolo del pianeta, le interazioni tra le persone. Il silenzio emotivo si coglieva immediatamente nella pennellata pastosa che non lasciava spazio ai lineamenti del viso né alle espressioni. Su quei dipinti ariosi, fortemente scorciati a lasciare in primo piano ampie porzioni di pavimento – il vuoto, appunto – la gente si muoveva senza guardarsi, si incontrava senza vedersi. A volte sulla tela restavano solo le gambe, i piedi: corpi senza volto e senza nome. Nessuno di quei personaggi avrebbe conservato memoria dell’uomo o della donna che aveva avuto accanto, che aveva anche forse urtato con la spalla, a cui magari aveva perfino chiesto scusa. E anche la ragazza che teneva per mano il bambino, lo teneva stretto per essere sicura di non perderlo, ma già guardava altrove, persa in un “dopo” che allo spettatore era precluso.
Si tratta di una serie di lavori luminosissimi, giocati su una gamma di cromie spesso ridotte e poi improvvisamente accese da un lampo di rosso o di verde squillante, mirabilmente costruiti negli equilibri formali. Sofisticatissime architetture di scorci arditi e di prospettive precipitanti nelle quali lo spettatore si sente immediatamente catapultato, assorbito da un flusso di movimento al quale sa di appartenere e del quale conosce molto bene le dinamiche.
Poi però quegli scorci hanno cominciato ad acquisire una vibrazione sottopelle che è andata sempre crescendo, fino ad oggi. A un certo punto, infatti, Liliana Cecchin ha deciso di spostare l’attenzione dall’incomunicabilità e dall’anonimità verso un’analisi dinamica. Quello che accadeva davanti ai suoi occhi, infatti, non era solo un freddo incontrarsi di identità indifferenti, ma era anche uno svolgersi di tempo del tutto ignorato dalla coscienza. Ciò che improvvisamente saltava all’occhio era che quegli attimi di vita erano in qualche modo “non vissuti”, affidati all’oblio del gesto automatico, mentre la mente rimuginava un prima o anticipava un dopo, scartando l’ipotesi di vivere il presente. Ecco, lì stava il cuore: il presente di un movimento così automatico da essere inavvertito. E quello l’artista ha deciso di fissare sulla tela.
Di colpo, dunque, la folla si anima di un dinamismo non più solo intuito dalla postura, ma analizzato nel dettaglio della gamba che si alza, muta di posizione, e che nell’istante si percepisce al tempo stesso piegata nel passo e distesa nella conclusione del medesimo. Facendo tesoro della lezione di Balla – un’opera chiave come La ragazza che corre sul balcone – e ancora di più di un capolavoro come le Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni, Liliana Cecchin anima i suoi dipinti e cristallizza per noi quel tempo perduto per sempre che affidiamo agli spostamenti frettolosi, al raggiungimento dell’obiettivo, e che per certi versi non viviamo. Il dipinto diventa così una danza di onde sinuose e di spirali, una coreografia fluida dove l’abito si fa panneggio di suggestione barocca e dove la sorgente di luce si anima in scie spiraliformi. Nel 1912, mentre Boccioni mette a punto l’idea che l’anno dopo prenderà forma in quella che è forse l’opera emblematica del futurismo (le Forme uniche, appunto), Marcel Duchamp dipinge il Nudo che scende le scale, mirabile gioco di solidi in movimento che fonde in maniera perfetta la lezione picassiana del cubismo e quella futurista sul movimento. Proprio in quel Nudo si devono rintracciare le radici del lavoro di Lilana Cecchin che però lei – profondamente inserita nella sensibilità contemporanea – ammanta di una grazia danzante e soprattutto arricchisce di significati simbolici legati alla frenesia febbrile che contraddistingue la nostra epoca.
Il percorso che sembra condurla verso l’astratto trova una nuova tappa negli ultimissimi lavori. Qui il pennello dell’artista sembra danzare lui stesso nei vortici della materia pittorica. Brandelli di figurazione restano aggrappati alla sola presenza dei piedi: fila di arti senza padrone mossi in una danza sincopata su un gigantesco pavimento giallo carico che cattura tutta l’attenzione dello spettatore. Oppure il movimento che domina la parte superiore del quadro non è più nemmeno attribuibile a una creatura animata, ma si fa dinamismo puro, gioco di linee sovrapposte, e riusciamo a dargli un senso solo grazie alla vaga silhouette di una gamba femminile scura sulla sinistra dello spazio pittorico. Ma forse il punto più alto di questa produzione sono i dipinti nei quali l’artista è riuscita a trovare il perfetto equilibrio tra astrazione e figurazione, tra movimento e staticità. Come in The red ghost, per esempio, dove la figura del ragazzo di profilo, all’estremità sinistra del quadro, assume la potenza epica dell’eroe solitario grazie alle onde di materia in movimento che sembrano generarsi da lui, dalle sue spalle, come un mantello magico. Costruito su una serie di architetture diagonali, il dipinto lascia una porzione di staticità in primo piano, in basso, proprio sotto la figura maschile, ma da quella si diparte, nella zona superiore, un unico movimento tellurico che ha il suo epicentro nella macchia nera al centro esatto della tela. La luce qui è abbagliante, i colori squillanti come quelli di Manet, e l’andamento ha il potere di ipnotizzare lo spettatore.
Stupefacente costruzione è anche quella di The ghost, complesso intreccio di figure giocato intorno a uno dei temi cari all’artista, quello delle scale – e delle scale mobili – che imprimono nuove direzioni al movimento portante della scena. Qui le figure sono colte nella corsa che prende (come insegnava Giacometti) la forma delle gambe allungate, le braccia si alzano in un gesto che, per effetto del movimento, trasforma le mani in artigli. I visi improvvisamente – dopo anni di latitanza dai lavori dell’artista – riappaiono ma sono deformati, fantasmatici, a volte ricollocati a metà della figura per effetto del movimento per cui quella, inizialmente in cima alla scala, ora ne è scesa. Il pennello vibrante di Gerhard Richter non perde qui di potenza ma si veste di una grazia tutta femminile e di un’attenzione al dettaglio tutta contemporanea. Mentre il contenuto concettuale di un lavoro intenso, pensato, profondamente ancorato ai ritmi febbrili della nostra quotidianità, si alleggerisce nella freschezza della pennellata e nella splendente gioia cromatica.